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27 sep. 2019

L’attualità dell’Europa, di un “Mediterraneo che ha più scogli che morti”. Questo nella regia di Hesperios firmata da Aurelio Gatti.

L’attualità dell’Europa, di un “Mediterraneo che ha più scogli che morti”. Questo nella regia di Hesperios firmata da Aurelio Gatti.

Author: Rita Sanvincenti / viernes, 27 de septiembre de 2019 / Categories: Realidad, Teatro, Italia, Toscana / Rate this article:
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Speciale Festival Internazionale Teatro Romano Volterra XVII Edizione. È grazie alla regia di Aurelio Gatti, coreografo, fondatore di Teatri di Pietra, che il “viaggio poetico” affrontato dal Prof. Fabio Pallotta con l’opera teatrale Hesperios L’Occidentale, andato in scena al Teatro Romano di Volterra in occasione della XVII edizione del Festival Internazionale, esprime, con immagini e citazioni che evocano la quotidianità, e attraverso il Coro, al quale viene restituito il suo ruolo originario, fondamentale e nobile, avuto nel teatro greco, il disagio del presente, mentre esorta alla riflessione come unica strada per individuare la cura del male. Storia, mitologia, attualità si fondano in un unico composto per indurre ad osservare, da una nuova, più ampia prospettiva, quanto sta accadendo all’Occidente, all’Europa.
Maestro Aurelio Gatti, come è arrivato alla regia di Hesperios e da quali elementi ha tratto ispirazione per la messa in scena?
Dall’attualità, dai tanti avvenimenti che restano “sotterranei”. Sono partito dal fatto che questo Mediterraneo, che riempie le pagine delle riviste turistiche, è un mare che ormai ha più morti che scogli. Ci si chiede come sia possibile, non tanto tollerare, bensì ritenere tutto questo normale, ordinario. Credo che il teatro possa essere veramente un terminale importante, anche se, molto spesso, si lascia andare alle tentazioni delle mode, delle tendenze, degli argomenti che per primi ottengono l’attenzione. Per due anni abbiamo avuto spettacoli di tutti i generi in cui erano protagonisti i migranti, gente disperatissima. Non ci si rende conto, però, che in questo modo non si fa altro che alimentare una tentazione ad interessarsi al problema, ma non si crea realmente l’interesse. Alla somma di tutti questi elementi si è aggiunto l’incontro con il professor Pallotta, autore di questo testo, potente sotto il profilo poetico. Come ogni fatto poetico, però, rischiava di non essere sufficientemente diretto e, a mio avviso, piuttosto che trasferirlo alla formula del monologo, oppure del dialogo, per quanto importante avrebbe potuto essere, ho voluto introdurre l’idea del coro.
Perché il coro?
Il coro perché è quello che sempre di più manca sulla scena, anzi, si può dire che non c’è più, mentre è proprio quello l’elemento che permette la riflessione. Il coro interloquisce, interagisce con gli attori. Oltre la linea dell’autore, del testo, c’è bisogno di una linea, che possiamo chiamare del drammaturgo, per creare, all’interno del discorso poetico, le contraddizioni necessarie per fa suscitare il quesito. Stasera lo spettacolo ha detto solo una cosa – come in Cassandra – che sono chiari tutti i sintomi di un malessere generale. È un malessere che da malattia sta diventando patologia ed è stranissimo che nessuno pensi a trovare il farmaco o il rimedio proprio all’origine di questo male. Tutti pensano, invece, che sia necessaria una sorta di invenzione supertecnologica, quando la tecnologia altro non è che la migliore espressione di un addomesticamento di una memoria, di una storia. Quindi, considerando tutto questo, ho deciso di fare qualcosa che non abusi “il classico”, che oggi, purtroppo, viene abusato nella maniera più brutta.
Qual è il motivo per cui questo avviene?
Questo accade non perché viene realizzato male, ma perché si riduce il classico ai suoi eroi, mentre il classico è una πόλις, perché non c’è dramma, non c’è tragedia che non si interfacci con una sensibilità, ora estrema, come ne Le Supplici, ora invece guardinga, come nell’Antigone. Ecco, ho pensato di “vedere” questi elementi, questa contemporaneità, che non è nell’attualità delle votazioni, ma è nel fatto che non ci si affida più al “sentirsi”, che significa anche scorgersi protagonisti, responsabili della propria storia. Tutto questo sono i pensieri. Poi ci sono gli interpreti. Con loro si fa il teatro, non con le idee. O meglio, esse sono un sussidio, un corollario. Sono gli interpreti che permettono di fare quello che ancora non è espresso. Perciò è accaduto che, ad un attore storico, navigato, come Sebastiano Tringali, sia stata affiancata una giovanissima come Sara Giannelli. Non è un accostamento che stride, ma è proprio ciò che poi si rivela essere la giovane Europa. Europa è, sì, la figlia del mito, ma è soprattutto una persona semplice che ama il mare, che ama quelle terre. Oggi, però, non è più possibile andare su una spiaggia e fingere di avere un rapporto esclusivo con il mare, perché inevitabilmente si comincia a pensare al fatto che può essere una spiaggia da sbarco o una spiaggia piena di animali morenti. Per superare questa follia ho pensato che affrontare un lavoro sull’uomo occidentale avrebbe potuto essere una bella opportunità. Innanzitutto per noi e, ci auguriamo, anche per il pubblico.
Nello spettacolo si ritrovano molti elementi che appartengono al teatro greco…
C’è il teatro greco e qualcuno, vedendo tanta danza, dice che si tratta di danza-teatro, mentre altri parlano di drammaturgia contemporanea. C’è tutto quello che ognuno ci vuole leggere, ma fondamentalmente c’è una tesi, che è quella poetica dell’autore, un’antitesi che è la storicità di un’ora. Tanto, infatti, dura lo spettacolo ed entro questo spazio temporale, quell’idea poetica deve essere tradotta in una sintesi che, oggi, non può essere, anzi mi auguro che sia sempre meno, esclusiva. C’è, oggi, una tendenza che vuole fare del λόγος, il ritorno al vero teatro; un’altra, invece, vuole imporre la tecnologia per renderlo multidisciplinare, quando il teatro, di per sé, è una delle poche discipline capaci di dialogare attraverso tanti linguaggi, ma tutti vengono meno all’unica istanza fondamentale, data dal fatto che quando c’è una comunità che sta a guardare, piccola o grande che sia, intellettuale, metropolitana, o periferica, a quella deve rispondere un’altra comunità. Soltanto in questo modo si ha un’affluenza di identità. Altrimenti si ha soltanto un soggetto che recita ed uno che ascolta: allora tanto vale una buona serata davanti alla televisione.




Nella foto: Aurelio Gatti al Teatro Romano di Volterra dopo lo spettacolo Hesperios, L'Occidentale



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